Le due anime della città sono state mostrate dal fotografo Andrea Danna durante la mostra “La Viterbo che Cambia”, tenutasi presso la Sala Almadiani in Piazza dei Caduti dal 2 all’11 gennaio 2015. A poca distanza dall’evento, vi proponiamo un dialogo con l’autore su diversi temi, dalla natura del mezzo fotografico alla valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico presente nel capoluogo.
Quando ti è venuta in mente per la prima volta la possibilità di poter scoprire un lato così evidente eppure così nascosto agli occhi delle persone, quale il rapporto tra il “nuovo” e l’”antico” nella nostra città?
Non ricordo con esattezza quando è stato, anzi a dire il vero penso che non ci sia stato un momento preciso, ma che sia avvenuto per gradi.
All’inizio era solo un piccolo esperimento che usai come mini-progetto finale per un corso di fotografia, e mentre lo sviluppavo mi sono accorto del potenziale creativo che si poteva esprimere, e dei molteplici aspetti per cui poteva rivelarsi una sfida interessante e persino “formativa” come fotografo: riuscire a creare qualcosa di visivamente stimolante nonostante la completa assenza della figura umana, produrre un lavoro fotografico originale su una città che è già stata fotografata in mille modi, ecc.
Questi ed altri aspetti che erano insiti nel progetto mi hanno motivato ad andare avanti nell’idea fino alla conclusione che avete visto alla Sala Almadiani.
Il progetto è stato lungo e faticoso immagino, parlaci di come l’hai affrontato dal punto di vista metodologico e artistico e anche qualche aneddoto di produzione, se vuoi.
Sì è stato piuttosto lungo, è vero. A livello metodologico ho seguito due approcci praticamente opposti: il primo consisteva nel farmi venire idee di possibili foto a priori, e poi cercare i punti adatti per concretizzarle; il secondo invece è di arrivare sul posto da perlustrare privo di ogni idea e cercare di lavorare con quello che mi metteva a disposizione la location in termini di strutture, di fonti di luce e via dicendo.
In pratica col primo approccio si parte dall’idea della foto e si va in cerca dei punti per realizzarla, nel secondo si parte da quello che offre la realtà per arrivare poi all’idea della foto. Entrambi i metodi hanno i loro punti di forza e i loro limiti, ma entrambi sono stati utili ai fini del progetto, perché spesso dove era inefficace uno si rivelava invece utile l’altro.
In ogni caso, qualunque metodo abbia seguito, è stato fondamentale girare e perlustrare la città in ogni metro quadrato di quelle zone che potevano offrirmi qualcosa, e tra l’altro così facendo ho scoperto alcuni angoli di Viterbo che ancora non conoscevo. É stato molto istruttivo oltre che divertente.
Il libretto che accompagna la mostra, è un vero e proprio breviario di composizione dell’immagine e guida passo passo il lettore nella scoperta delle avversità e delle scelte che si trova ad affrontare chi fa di mestiere il fotografo. Aveva un intento didattico? Con me ha sortito questo effetto, permettendomi di capire determinate scelte tecniche per ottenere determinati effetti visivi.
Sono contento che su di te abbia avuto questo effetto. Il libretto voleva essere in effetti una sorta di “guida fotografica” per chi volesse saperne di più su quello che aveva appena visto alla mostra, ed era pensato sia per gli appassionati di fotografia sia per le persone più o meno estranee al settore.
L’ho scritto con la convinzione che spiegando le scelte creative che hanno portato ad un determinato risultato si possa apprezzare di più l’opera stessa, sia perché io stesso avrei voluto qualcosa del genere in altre mostre fotografiche a cui ho assistito, sia perché a volte si può essere non capiti o fraintesi, e in questi casi non c’è niente di male ad offrire al pubblico gli strumenti con cui può giudicare meglio l’operato di chi espone.
In secondo luogo, c’è un sano gusto della condivisione. Quando fai qualcosa che ti piace la vuoi condividere con gli altri, ed è per questo che tramite il libretto ho voluto condividere il percorso e le motivazioni dietro a quelle quindici foto che avete visto appese lì da sole, quasi per caso.
Ti aspettavi di trovare elementi storici in una zona industriale come il Poggino? Qual è stata la tua reazione?
A dire il vero non è stata una scoperta inaspettata, semplicemente perché una delle suggestioni che mi ha portato a sviluppare questo tema è stato proprio il notare questi vecchi casali in mezzo alla zona industriale della città. Per questo sin dall’inizio sapevo che il progetto sarebbe stato diviso idealmente in due parti: le incursioni del moderno nell’antichità del centro storico, e i resti antichi nella modernità delle periferie. Le foto scattate al Poggino appartengono chiaramente alla seconda categoria.
Entriamo nel dibattito tecnico e insieme filosofico del mezzo espressivo che hai scelto. La fotografia dovrebbe fotografare solo l’esistente o in qualche maniera interpretarlo? Sei fra quelli che ritiene che la macchina inquadri la realtà in maniera asettica e priva di giudizi o tra coloro che ritengono imprescindibile anche un coinvolgimento emotivo e, volendo, una presa di posizione nella tematica scelta dal progetto fotografico?
Il mezzo fotografico in sé consiste nella rappresentazione della realtà, è vero, ma la realtà è continua e senza limiti, mentre nella fotografia la dobbiamo chiudere in un rettangolo e per questo dobbiamo decidere cosa includere e cosa escludere. Questa scelta implica già di per sé un’interpretazione. Volenti o nolenti, in ogni foto è presente un’interpretazione, che poi può essere banale, semplice o superficiale quanto si vuole, ma nel momento in cui decidiamo cosa inquadrare stiamo già esprimendo un punto di vista sulla realtà. Che questo sia interessante o meno, è un altro discorso.
Se ad esempio sto fotografando una casa in campagna adiacente ad una discarica, se decido di escludere la discarica dall’inquadratura vedo solo la casetta e sto dando un’interpretazione positiva e ottimistica, ma se includo la discarica nell’inquadratura ecco che si trasforma in una foto di intenti opposti. Eppure entrambe le foto rappresentano “la realtà”.
Quali sono secondo il tuo punto di vista, i punti di forza e le fragilità di una città e di un territorio come quello viterbese?
Non penso di dire niente di nuovo, il punto di forza del Viterbese è senza dubbio nella sua storia e nel suo patrimonio artistico-culturale e paesaggistico, il problema è che negli anni è mancata una pianificazione concreta per valorizzare tutto questo e per promuoverlo a livello turistico, è un territorio in cui ancora troppo spesso si ha l’impressione che quasi ci si voglia nascondere non si sa bene da chi o cosa. Nelle nuove generazioni però vedo molta più consapevolezza di questo rispetto al passato, perciò mi sento di essere ottimista per il futuro.
Qual è stato il commento del pubblico e delle istituzioni?
Sia dal pubblico che dalle istituzioni ho avuto un ottimo riscontro, avevo timore che lo spirito delle fotografie potesse non essere colto e invece devo dire che molti commenti che ho sentito mi hanno tranquillizzato e mi hanno fatto capire che il progetto è stato compreso per come lo avevo inteso io, in generale è andato tutto oltre le mie più rosee aspettative. Tra le cose che più mi hanno fatto piacere ci sono le persone che hanno visto la mostra e che sono tornate con altri parenti o amici per farla vedere anche a loro.
A quando i prossimi progetti? Hai pensato ad allargare il raggio di azione su tutto il territorio della Tuscia?
Sono già al lavoro su un altro progetto che riguarda la Tuscia in collaborazione con altre persone, mentre come progetti personali ne sto sviluppando uno su un’altra città, che spero di presentare il prossimo anno. Mi piace interpretare la città e l’architettura, e spero prima o poi di produrre un volume che raccolga i miei progetti in quest’ambito; ma adesso è ancora troppo presto per pensare a questo./p>
Leonard Vietri